Scoppio di Calenzano, quanti interrogativi dietro la tragedia
12-12-2024 19:32 - Opinioni
di Franco Pescali
Il terribile incidente avvenuto al deposito ENI di Calenzano ha evidenziato gravi lacune nel “sistema sicurezza”.
Partiamo dalla protezione civile.
La ENI di Calenzano è classificata come un’industria ad alto rischio soggetta ad una normativa specifica; questo significa che quella organizzazione ha dovuto produrre un documento in cui dovevano essere previsti i vari scenari di rischio e i loro effetti sul territorio circostante.
Da quanto riportato dai media, sembrerebbe che l’onda d’urto che ha investito le abitazioni e le fabbriche circostanti, abbia interessato una porzione di territorio molto maggiore di quella prevista dal piano.
Le prime domande quindi che sorgono spontanee sono:
Chi doveva controllare il piano presentato dall’ENI? Il piano comunale di Protezione Civile del Comune di Calenzano era integrato con il Piano dell’ENI? Quante esercitazioni sono state fatte coinvolgendo la popolazione su eventuali scenari previsti? E come siamo messi con le altre aziende a rischio rilevante presenti nella nostra regione?
Passiamo ora ad analizzare la sicurezza sul lavoro
Le morti sul lavoro hanno già raggiunto una cifra ragguardevole anche nella nostra regione; più di trenta morti nell’anno 2024.
Oltre agli incidenti mortali dobbiamo poi anche sommare i feriti, spesso con gravi lesioni permanenti, i cui effetti producono ripercussioni nella vita personale e professionale di ogni lavoratore/lavoratrice.
Purtroppo,dopo ogni incidente mortale, la retorica regna sovrana.
L’inchiesta della magistratura, la copertura mediatica, lo sdegno della politica, la presa di posizione del sindacato, lo sciopero di una giornata per ricordare e rivendicare giustizia.
Mai più! fermiamo la strage! non si può morire di lavoro! sono queste le frasi scritte e lasciate sui lenzuoli dai colleghi nei luoghi dell’incidente.
Poi comincerà un processo penale, l’attenzione dei media scemerà… fino alla prossima morte, per ricominciare il triste ciclo.
Attualmente il modello dominante nel nostro sistema giuridicoè quello incentrato sulla bloodpriority o della sicurezza reattiva; cioè si arrivano a prendere provvedimenti legislativi e giudiziari, spessodrastici dopo un incidente grave.
La magistratura aprirà un’inchiesta e dall’inchiesta emergerà che già in passato c’erano stati problemi su quel telaio, in quel ciclo di lavorazione, nella movimentazione di quel carrello; tutti segnali di pericolo, accettati o ignorati dal sistema.
Si troverà un colpevole, lo si condannerà e le cose, piano, piano, riprenderanno come prima.
Questo approccio alla sicurezza è stato accertato oramai da anni da importanti studi del settore, è un modello che non aiuta la prevenzione ma serve solo a trovare un “capro espiatorio” su cui scaricare tutte le colpe e a sottrarre le organizzazioni dall’attuare interventi di correzione dei cicli di lavoro.
Un altro paradigma, di prevenzione sul lavoro e di cultura giuridica, è quello incentrato sulla Just Culture o cultura pro-attiva.
Questo modello è nato e si è sviluppato in ambito aeronautico dove nei cicli lavorativi ad ogni livello viene incentivata e facilitata la segnalazione spontanea di errori o di piccole o lievi omissioni, al fine di correggere per tempo eventuali azioni o procedure che possano portare ad un incidente.
L’errore non viene punito.
Almeno che non si tratti di un atto intenzionale, l’errore verrà studiato, analizzato, percomprendere come si è generato e perché l’organizzazione non abbia creato barriere per fermarlo; dalla disamina dei fatti emergerà se serve potenziare l’addestramento, migliorare l’ergonomia, la strumentazione o cambiare le procedure di lavoro.
La Just Culture, contrariamente all’altro modello prevede la massima informazione a tutti i lavoratori per capire non CHI ha sbagliato, ma DOVE e PERCHE’ il sistema e le barriere hanno fallito.
La Just culture è un modello che deve coinvolgere il top management. Gli errori o le omissioni non partono dai lavoratori o sui luoghi di lavoro, ma partono dalle stanze dei manager e dalle direzioni aziendali e se non corretti producono i loro effetti nel front line.
Quindi certe domande sorgono spontanee.
Perché le segnalazioni di sicurezza fatte da Vincenzo Martinelli, il camionista morto nello scoppio, non hanno avuto risposta? Chi doveva gestire quelle segnalazioni? Ai lavoratori dipendenti di quel deposito venivano informati delle segnalazioni fatte e dei pericoli/ incidenti già avvenuti in passato?
Se veramente non cambiano i paradigmi della sicurezza, coinvolgendo la politica, la magistratura, top management, purtroppo questi non saranno gli ultimi morti che piangeremo ed è tragico per un paese che al primo articolo della sua costituzione enuncia che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Partiamo dalla protezione civile.
La ENI di Calenzano è classificata come un’industria ad alto rischio soggetta ad una normativa specifica; questo significa che quella organizzazione ha dovuto produrre un documento in cui dovevano essere previsti i vari scenari di rischio e i loro effetti sul territorio circostante.
Da quanto riportato dai media, sembrerebbe che l’onda d’urto che ha investito le abitazioni e le fabbriche circostanti, abbia interessato una porzione di territorio molto maggiore di quella prevista dal piano.
Le prime domande quindi che sorgono spontanee sono:
Chi doveva controllare il piano presentato dall’ENI? Il piano comunale di Protezione Civile del Comune di Calenzano era integrato con il Piano dell’ENI? Quante esercitazioni sono state fatte coinvolgendo la popolazione su eventuali scenari previsti? E come siamo messi con le altre aziende a rischio rilevante presenti nella nostra regione?
Passiamo ora ad analizzare la sicurezza sul lavoro
Le morti sul lavoro hanno già raggiunto una cifra ragguardevole anche nella nostra regione; più di trenta morti nell’anno 2024.
Oltre agli incidenti mortali dobbiamo poi anche sommare i feriti, spesso con gravi lesioni permanenti, i cui effetti producono ripercussioni nella vita personale e professionale di ogni lavoratore/lavoratrice.
Purtroppo,dopo ogni incidente mortale, la retorica regna sovrana.
L’inchiesta della magistratura, la copertura mediatica, lo sdegno della politica, la presa di posizione del sindacato, lo sciopero di una giornata per ricordare e rivendicare giustizia.
Mai più! fermiamo la strage! non si può morire di lavoro! sono queste le frasi scritte e lasciate sui lenzuoli dai colleghi nei luoghi dell’incidente.
Poi comincerà un processo penale, l’attenzione dei media scemerà… fino alla prossima morte, per ricominciare il triste ciclo.
Attualmente il modello dominante nel nostro sistema giuridicoè quello incentrato sulla bloodpriority o della sicurezza reattiva; cioè si arrivano a prendere provvedimenti legislativi e giudiziari, spessodrastici dopo un incidente grave.
La magistratura aprirà un’inchiesta e dall’inchiesta emergerà che già in passato c’erano stati problemi su quel telaio, in quel ciclo di lavorazione, nella movimentazione di quel carrello; tutti segnali di pericolo, accettati o ignorati dal sistema.
Si troverà un colpevole, lo si condannerà e le cose, piano, piano, riprenderanno come prima.
Questo approccio alla sicurezza è stato accertato oramai da anni da importanti studi del settore, è un modello che non aiuta la prevenzione ma serve solo a trovare un “capro espiatorio” su cui scaricare tutte le colpe e a sottrarre le organizzazioni dall’attuare interventi di correzione dei cicli di lavoro.
Un altro paradigma, di prevenzione sul lavoro e di cultura giuridica, è quello incentrato sulla Just Culture o cultura pro-attiva.
Questo modello è nato e si è sviluppato in ambito aeronautico dove nei cicli lavorativi ad ogni livello viene incentivata e facilitata la segnalazione spontanea di errori o di piccole o lievi omissioni, al fine di correggere per tempo eventuali azioni o procedure che possano portare ad un incidente.
L’errore non viene punito.
Almeno che non si tratti di un atto intenzionale, l’errore verrà studiato, analizzato, percomprendere come si è generato e perché l’organizzazione non abbia creato barriere per fermarlo; dalla disamina dei fatti emergerà se serve potenziare l’addestramento, migliorare l’ergonomia, la strumentazione o cambiare le procedure di lavoro.
La Just Culture, contrariamente all’altro modello prevede la massima informazione a tutti i lavoratori per capire non CHI ha sbagliato, ma DOVE e PERCHE’ il sistema e le barriere hanno fallito.
La Just culture è un modello che deve coinvolgere il top management. Gli errori o le omissioni non partono dai lavoratori o sui luoghi di lavoro, ma partono dalle stanze dei manager e dalle direzioni aziendali e se non corretti producono i loro effetti nel front line.
Quindi certe domande sorgono spontanee.
Perché le segnalazioni di sicurezza fatte da Vincenzo Martinelli, il camionista morto nello scoppio, non hanno avuto risposta? Chi doveva gestire quelle segnalazioni? Ai lavoratori dipendenti di quel deposito venivano informati delle segnalazioni fatte e dei pericoli/ incidenti già avvenuti in passato?
Se veramente non cambiano i paradigmi della sicurezza, coinvolgendo la politica, la magistratura, top management, purtroppo questi non saranno gli ultimi morti che piangeremo ed è tragico per un paese che al primo articolo della sua costituzione enuncia che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.